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Funiculì, l’inizio di un’epoca

di Pietro Gargano, da Il Mattino del 20 Agosto 2001

Il 6 maggio del 1880 due vagoncini, il Vesuvio e l’Etna, s’inerpicarono per la prima volta fin quasi sulla cima del vulcano, arrancando sulle rotaie. La Funicolare del Vesuvio non ebbe tuttavia, un successo immediato. I napoletani intenzionati a guardare dall’alto il panorama – allora il più bello del mondo: cielo terso, mare pulito, pochi grappoli di case – continuarono a preferire, come mezzo di locomozione, il più rassicurante asinello. Paura del nuovo oppure superstizione? L’inviato dell’Illustrazione Italiana, Nicola Lazzaro inveì contro quelle macchine: “E’ una profanazione, è come togliere la poesia al monte”.
La poesia, allora, dominava perfino nelle leggende. Le guide turistiche narravano ai viaggiatori la storia di un giovane napoletano di nome Vesuvio, innamorato perso di una fanciulla bella e buona appartenente al casato dei Crapa. Anche Vesuvio era bello e buono, ma non ricco a sufficienza, e pure allora il danaro contava più di tutto. La famiglia di lei lo respinse e mandò la ragazza a smaltire la delusione da certi parenti al Capo della Minerva. L’inconsolabile si gettò in mare per annegare il dolore e divenne un’isola poi chiamata Capri. Vesuvio lanciò sospiri sempre più roventi, finché anch’egli stesso diventò materia, anzi montagna, una montagna che sputa fuoco dalla bocca ogni volta che Vesuvio è colto da più rabbiosa nostalgia della sua amata di pietra che sta sta lì, dirimpetto, irraggiungibile per sempre.
Ma con la sola poesia non si fanno affari. L’impresa della Funicolare, costata centinaia di migliaia di lire, languiva; e bisognava reagire, trovare canali di propaganda. Fu una canzone il formidabile spot della Funicolare: Ne.. jammo: da la terra a la montagna / no passo nc’è / se vede Francia, Proceta, la Spagna… e io veco a te. / Tirate co lli fune, ‘nditto, fatto, / ‘ncielo se va. / Se va comme llo viento, e all’antrasatto / gué, saghia, sa’… / Jammo, jammo, ‘ncoppa jammo, jà… / Funiculì, funiculà.
L’avevano composta – un po per scommessa e un po’ per allegria – due autori di notevole talento, il poeta e giornalista Peppino Turco e il musicista Luigi Denza. Queste due celebrità si misero rapidamente al lavoro e presentarono la schioppettante canzone – cantandola pure – la sera di Piedigrotta, il 7 settembre 1880 a Castellammare di Stabia, prima nello Stabia Hall, chalet estivo della Villa comunale, e poi nel salone dell’albergo Quisisana.
Risultati eccezionali. Presto il cassiere della Funicolare contò incassi più che soddisfacenti: la gente fu calamitata dalla voglia di ripetere quel motivo dal vivo e magari di controllare se davvero da lassù si vedevano, con Procida, la Francia e la Spagna.
L’eco artistica fu internazionale. Richard Strauss riprese note di Funiculì funiculà fra i temi della sua sinfonia Aus Italien, 1886. Alfredo Casella la citò nella rapsodia Italia, 1909. E soprattutto la milanese Casa Ricordi, che aveva acquistato i diritti, fece un formidabile affare: in un anno vendette un milione di copie della canzone. Cifre da pop e da rock, da Beatles e da Elvis Presley.
Non è scritto nelle cronache, ma forse Turco e Denza brindarono al successo con una bottiglia di Lacrima Christi nata lassù. Fu Gesù, dicono, a creare quel vino. Predicando predicando arrivò in cima al vulcano, guardò il panorama e disse: “E un paradiso in terra, ma gli uomini che mascalzoni!”. Pianse per la nostra cattiveria e le sue lacrime fecero buchi nel terreno, da cui spuntarono meravigliose vigne.
Esiste una variante della storiella. Satana tentò un eremita vesuviano che offriva vino ai viandanti, e stava per aggiudicarsi la sua anima quando il Signore lo mise in fuga con un tremendo acquazzone. La pioggia cadde nel vino. L’eremita temeva di doverlo gettare, invece lo assaggiò e lo trovò squisito. La leggenda è stata inventata da qualche produttore che più non sa fare la Lacrima di una volta?
Torniamo a Funiculì. Quel motivo echeggiava antiche melodie popolari, derivava dalla mossa melodica de Lo zoccolaro che a sua volta Teodoro Cottrau aveva rubato una ventina d’anni prima alla voce di un venditore ambulante. Ma l’antica lezione rimase soltanto sullo sfondo musicale, perché gli autori seppero cogliere il senso del futuro che viaggiava nei vagoncini avanzanti verso il cratere. Una lezione ai tanti che confondono la memoria con l’inerte nostalgia del tempo perduto.
Funiculì funiculà segnò l’inizio della canzone classica napoletana: aprì la stagione d’oro e avviò un movimento in cui militarono i migliori talenti dell’epoca. Fu incrinato allora il filo che univa la produzione canora alle radici del canto popolare. S’instaurò una relazione strettissima fra i versi e la musica, nati contestualmente e con un obiettivo preciso, fosse pure di occasione. L’ispirazione còlta degli autori – Turco e Denza producevano parole e note per mestiere – divenne elemento fisso della fase di decollo della canzone d’arte. Poeti veri, giornalisti di qualità, autori di teatro, persino i futuristi si allearono a quanti conoscevano i segreti del pentagramma. A loro arrivò il rinforzo prezioso di verseggiatori e compositori di formazione spontanea: altri riformatori, giacché si inserivano nell’alveo degli artisti che animavano piazze e vichi napoletani. Funiculì avviò anche l’industria della canzone e sfruttò Piedigrotta come cassa di risonanza, moltiplicatrice di successo.
In principio ad arricchirsi furono i milanesi. Intuendo le potenzialità di mercato della musica napoletana, Ricordi aprì fin dal 1864 una succursale della Casa negli uffici dei suoi ex rappresentanti, i fratelli Clausetti. Per 70.000 lire l’impresa nordista acquistò negozio e calcografia. L’attività cominciò con la ristampa di vecchie nenie popolari, il Ricordo di Napoli di Matteo L. Fischetti, i tre volumi dell’Eco di Napoli di Vincenzo De Meglio. Finché Ricordi non si lanciò su Funiculì funiculà: il nuovo vincente.
Non fu però una novità sotto il profilo economico. A scorrere la storia e la cronaca di Napoli, dietro ogni buon affare troverete protagonisti forestieri. Il marchio di Ricordi, che fu il marchio di Verdi e della grande stagione della lirica, aggiunse comunque una patina di nobiltà alle origini della nostra canzone d’autore. Ora Ricordi è controllata dai tedeschi, tutto cambia.
Il clamoroso successo di Funiculì funiculà ebbe un effetto doppio. Da un lato alimentò una gara fra gli intellettuali che non disdegnarono di misurarsi sul friabile terreno della canzone, anche perché intuirono la nostalgia, e forse ne furono contagiati, che oramai animava gli abitanti della capitale perduta con l’arrivo dei piemontesi. La lingua napoletana ridiventò così una patria, una livella: nell’arte anche i piccolo borghesi e i proletari ambiziosi trovarono un uscita di riscatto.
La musica rimbalzò dappertutto: serenate sotto i balconi delle belle, concertini di posteggiatori e gavottisti, riunioni d’arte dette periodiche in salotti opulenti o appena decorosi, acuti sulle rotonde delle stabilimenti balneari. Anche Enrico Caruso cominciò così, compensato dai pochi spiccioli caduti in un piattino, ai Bagni Risorgimento di via Pertenope.
Più concretamente, anche gli editori dei giornali – oltre a quelli musicali – capirono la potenzialità della canzone e pubblicarono valanghe di versi. Ne risultò trasformata la stessa Piedigrotta, meno festa di popolo e più spettacolo, pretesto di un concorso permanente. I dolci pianini sopravvissero, ma ridimensionati dai nuovi strumenti di diffusione di massa.
Il vulcano immanente sulla città continuò a ispirare canzoni. Una su tutte, tra le più belle di sempre: Tu ca nun chiagne! di Libero Bovio ed Ernesto De Curtis, del 1915. Alcuni versi sono strepitosi: Comm’è bella ‘a muntagna stanotte… / bella accussì nun ll’aggio vista maie! / N’anema pare rassignata e stanca / sott’ a cuperta ‘e chesta luna janca…
E’ difficile che un napoletano lo chiami Vesuvio, preferisce dire ‘a muntagna. Al mio paese, ch’è Portici e sta disteso là sotto, la bestemmia più rispettosa è Mannaggia ‘a muntagna.
Il viola cangiante del cono, le cascate nere di lava rappresa e quelle gialle e leopardiane delle ginestre, gli stessi toponimi – Valli del Gigante e dell’Inferno, Atrio del Cavallo, Punta del Nasone – sembrano fatti per spingere alla fantasia. Il canzoniere vesuviano fu arricchito, nel tempo. A montagna di Del Gaizo-Fragna, del 1899, era ardente e si rifaceva all’antenata famosa: Nfuniculì, Nfuniculà / vide fuoco a coppe a sotto, / fuoco pure attuorno a te…. Margarita mia, stanotte, / sa che spasso te piglie cu me.
Canzone vesuviana di E.A. Mario, lanciata da Elvira Donnarumma nel 1916, pure ricordò la funicolare, ma in senso più sentimentale: E nuje saglimmo. E stammo ncielo quase: / luntane, veco casarelle e chiese… / Ah, che funicolare songo ‘e vase: / nuje ce vasammo… eghiammo ‘mparaviso.
Marì, viene ccà di Federici-Silvestri (1924) precedette di un anno ‘O Vesuvio di Vetroni-Cannio, che ebbe una tardiva replica dallo stesso titolo firmata Giglio-Modugno e arrivata terza al Festival del 1967. Aria ‘e paese di Rossetti-Colonnese è invece del 1939.
Ora tutto è cambiato. Il pennacchio cupo del Vesuvio se ne è andato in vacanza dal 1944, anche se parolieri e compositori continuano a cantare il vulcano: Vesuvio di Gigliati-Bonavolontà (1953), ‘O ffuoco d’o Vesuvio di Della Gatta-Vian, ‘O fummo d’ ‘o Vesuvio di Volonnino (1957), dallo stesso titolo di un brano popolare del 1895 di Peppino Bozzoni, musicato da Gaetano Scognamiglio.
La Funicolare non c’è più, si è sfarinata pure la più moderna seggiovia. Nel 1990, tempo di campionati mondiali di calcio e di tangenti, la Funicolare volevano ricostruirla con tredici miliardi, ma avevano trascurato il fatto che i quattromila utenti all’ora previsti dal progetto erano troppi per metterli in salvo in caso di risveglio del vulcano. Il progetto fallì.
Restarono, assediati da cumuli di immondizia, lava, lapilli pietrificati e ginestre, oltre alla paura di un risveglio del vulcano. Uno degli ultimi autori classici napoletani, Vincenzo Belfiore, in una favola itinerante edita dal suo amico E.A. Mario, scelse la lingua italiana per descrivere questo timore, quasi a prenderne le distanze: Questo Gigante che un fallace sonno / tiene assopito in dormiveglia ambiguo / ogni tanto si desta e lo sgranchito / che alle sue membra impone, scuote e muove / la greve e nera coltre che lo copre / dal grosso collo fino ai piedi al mare.
Ma dal 1995 è nato il Parco Nazionale del Vesuvio, per fermare lo scempio. Lungo i sentieri si va al cratere a quota 1281. Le guide mostrano ventitré specie di orchidee selvatiche e le bombe sparate dalla bocca di fuoco. Avvistano ai visitatori emozionati il passaggio di una fama, di un ululone dal ventre giallo e magari di un gatto selvatico. Indicano i voli larghi della ballerina bianca e quelli più brevi dell’immancabile passero solitario che sfiora le ginestra come per nostalgia di un grande poeta.
Rispettare la natura resta il modo migliore per limitare le conseguenze della sua furia. L’eco di Funiculì funiculà non si è perduta. Ncoppa jammo jà.